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Forse non tutti sono a conoscenza di quanto Pier Paolo Pasolini amasse la regione Puglia, la sua storia, le sue meraviglie naturalistiche e architettoniche. In qualità di reporter, ebbe anche occasione di scrivere, nel 1951, delle bellezze di Alberobello, redando un articolo sulle gravine e sui trulli, che lo lasciarono in passato già a bocca aperta. L’autore,uno dei massimi esponenti della cultura italiana dello scorso secolo, sparì vent’anni dopo a seguito di un misterioso incidente, dopo essersi dimostrato uno dei maggiori intellettuali del panorama nazionale.
Forse il capolavoro delle Puglie è proprio Alberobello. Non c’è manuale turistico che lo ignori, né libro di geografia per scuole medie che non porti la fotografia dei suoi trulli. Niente invece, in questo paese,che sappia di colore locale. Alberobello è un paese perfetto la cui formula si è fatta stile nel rigore con cui è stata applicata.
Dal primo muro all’ultimo, non un corpo estraneo, non un plagio, non una zeppa, non una stonatura. L’ammasso dei trulli nel terreno a saliscendi si profila sereno e puro, venato dalle strette strade pulitissime che fendono la sua architettura grottesca e squisita. I colori sono rigidamente il bianco – un bianco ovattato e freddo, con qualche striscia azzurrina – e il nerofumo. Ma ogni tanto nell’infrangibile ordito di questa architettura degna di una fantasia, maniaca e rigorosa – un Paolo Uccello, un Kafka – si apre una frattura dove furoreggia tranquillo il verde smeraldo e l’arancione di un orto.
È il cielo… È difficile raccontare la purezza del cielo, in quella domenica sera, a Alberobello: un cielo inesistente, puro connettivo di luce sulle prospettive fantastiche del paese.
Di un trullo isolato si potrebbe parlare solo con i termini della cristallografia. Tutti i corpi solidi vi sono fusi mostruosamente per dar forma a un corpo nuovo, delicato, leggero.
I tetti a punta.
I tetti a punta, di un nero cilestrino, si staccano improvvisi da questa base contorta e armoniosa, per riempire il cielo di magiche punte. Non c’è traccia di miseria o di sporcizia. I trulli più poveri, allineati per i vicoli scoscesi, da paese montano, vaporosi e candidi, sono pieni di nitore, anche negli interni, dietro i vani neri delle porte ricoperte da tende penzolanti come reti.
I sentieri, la sera in cui arrivai, erano deserti: solo qualche bambino giocava seduto davanti alle soglie, in mezzo a tutto quel biancore. La piazza al contrario era affollata, come in un giorno di fiera, ma si trattava di una folla silenziosa, lieve, vestita di scuro: una radio, inaspettatamente, tuonava la cronaca della partita domenicale, come se annunciasse i fatti di un altro pianeta.
Ma tra la piazza e il sobborgo deserto, in un piazzale incassato in mezzo ai trulli, suonava solitaria una pianola coperta da un drappo rosso. Era un vecchio tango, completamente trasfigurato, dall’aria del paese; un giovanetto bruno, vestito a festa, stava ad ascoltarlo. Mi avvicinai a lui, e un po’ intimidito dalla sua timidezza, gli chiesi: «Come ti chiami?». «Giovanni», rispose. «Sei contento di vivere a Alberobello?». Per me vivere ad Alberobello era una straordinaria novità e consideravo sensata la mia domanda; infatti egli mi rispose semplicemente: «Sì».
Era già sera e i bianchi intonachi granulosi dei trulli emanavano un alone candido nell’aria vuota e turchina. Per l’intero giorno era sfolgorato un sole estivo che aveva rischiarato in tutta la sua nudità la terra pugliese. Terra arancione, su cui il biancore di Alberobello era stato quasi un miracolo.
Da Bari a Alberobello, tra le Murge e l’Adriatico la terra è arancione. Un leggero tappeto arancione, arabescato da muretti dello stesso colore e da radi boschi di ulivi d’un verde carico,vicino al celeste, tra cui, ogni tanto, compare un gregge di pecore color malva, con le zampe nere, eleganti e lievi come ballerine. Qua e là – pavese dove la tinta del luogo raggiunge la massima accensione – trema un pesco arrossato dall’autunno, d’oro massiccio.
Nel Salentino e nel Gargano Massafra e Monte Sant’Angelo contendono a Alberobello il primato della perfezione. Massafra sorge su un colle spaccato a metà da un torrente. Si immagini una prospettiva del Tevere, la più grandiosa, la più aerea, e, al posto dei palazzi, delle cupole, dei muraglioni – e dell’acqua – un abisso di rocce. Aggrappate a queste rocce, col loro stesso colore, le vecchissime case di Massafra, spaccata come il colle a metà dalla profonda gola.
Un breve ponte di pietra è sospeso sul canyon grandioso, aperto, in fondo, verso la pianura salentina, inazzurrata da foschie sempre più stagnanti e incantate man mano che si avvicinano al mare. Una strada a tornanti porta dal piano all’improvvisa altura di Massafra, e conduce attraverso una stretta via (la consueta dei paesi delle Puglie) fino a una grande piazza-giardino, quadrata e festante (anch’essa la consueta, con un po’più di magnificenza paesana).
Puro medioevo.
Al di là del ponte si trova il centro della città, una piazza affollata, verso sera, come in un giorno di festa. E’ una calca di uomini vestiti di nero e ragazzi disegnati col diamante e il carbone. Attorno a questa piazza si aggrovigliano, come visceri, i vicoli e le stradine scoscese, attraverso cui si regrediscono fino nel cuore del tempo. Il puro medioevo, intorno.
Ti spingi giù verso il basso e arrivi alle mura di un forte, svevo o normanno, puntato come uno sperone verso là dove l’abisso di Massafra si apre sulla pianura sconfinata. Il cielo è sbiadito e la sua luce colpisce accecante il borgo e le rocce, uguali in colore e in vastità, in vecchiezza e in silenzio.
Come in Alberobello, l’architettura di Massafra, intorno al motivo dell’abisso di rocce che le si apre nel cuore e l’allarga in spazi e vuoti grandiosi, è di una coerenza che fa pensare al rigore di uno stile. Non c’è nulla in questo; paese, come a Alberobello, o come a Monte Sant’Angelo, a Ostuni, a Otranto, a Castro, che incrini la purezza dell’architettura, che si è stratificata casa per casa, vicolo per vicolo, intorno alle cattedrali.
È una tettonica pura, al suo stato naturale: il tempo in un dato anno, o secolo, si è fermato, e la città si è serbata fuori di esso, fossile e incorrotta.
Questo era il brano che Pier Paolo Pasolini dedicò ad una Puglia che ebbe modo di scoprire e amare come pochi altri, sfiorandola con sensibilità e passione. Nelle sue parole, una descrizione incantevole che resiste tutt’oggi, evidenziando come, nella terra dei trulli e delle gravi, il tempo si sia davvero quasi fermato per più di un secolo.
Data: 20 Dic 2018
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