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Le immagini di diversi frammenti di umanità, raccolti sotto la lente dell’obiettivo fotografico, a mettere insieme viaggi al sapore di Siria, Brasile e Perù, per tornare a ricevere premi in Italia, nella recente edizione del Fiof 2016. Il tutto seguendo un monito di Garcia Lorca, recitante “Quello che contava era sempre una storia. Che in qualche modo, da qualche parte era cominciata. E in qualche modo, da qualche parte, doveva finire”. La fotografa barlettana Antonella Dargenio, 31 anni, è stata protagonista di un viaggio teso a ripercorrere, attraverso gli scatti istantanei delle diverse umanità, quel viaggio ideale che ognuno di noi compie dietro le palpebre socchiuse, in modo interiore, immaginifico, sommerso, spaziando attraverso mondi e stralci di vita che sono altrettanti luoghi visitati soltanto in sogno. Ad accompagnarla, spiega, “non solo il desiderio velleitario di allontanarmi dalla “mia” Terra e spostare lo sguardo su altri orizzonti; bensì il preciso intento di arrivare, attraverso i miei viaggi, al centro della terra stessa, in quel tondo primigenio che tutti ci affratella. Di ogni luogo fotografo la ricchezza, i sorrisi, il patrimonio umano, ma anche le piaghe, il dolore, la povertà, l’ignoranza e i limiti del finito. Non scatto per un semplice gusto estetico, non sono attratta dalla bellezza comunemente intesa. Il mio scatto è un riconoscimento del mio sguardo dentro un altro sguardo, è esattamente quell’attrazione, quell’”A-pelle” che scatta quando, per la prima volta, spalanchiamo lo sguardo dentro gli occhi e nel cuore di chi, misteriosamente, ci rispecchia”. Una filosofia che l’ha portata a fare incetta di premi nel festival internazionale di fotografia tenuto a Orvieto, conquistando un Silver Award e un Gold Award e il premio assoluto nella categoria Ricerca “amatori” (privi di partita iva), oltre a due menzioni d’onore nelle categorie Reportage e People.
La narrazione fotografica ha avuto il via con il viaggio in Perù. “Mi sono spinta fino a Pomabamba, un posto quasi dimenticato dal mondo, aldilà delle Ande-racconta la Dargenio-Un posto in cui tutto sembra fermo e i segni della civiltà non sono quasi per nulla tangibili; in cui, però, la civiltà intesa come esordio della vita rimane intatta nella sua più autentica genuinità. Questa genuinità, quest’autenticità l’ho ritrovata nello sguardo di certi bambini e di certi anziani come se, magicamente, il filo di tutta l’esistenza si prendesse per mano. Come se quel bambino, nato alla vita, si ricongiungesse con la mano dell’anziano che diventerà mentre, la natura, intatta, sta a guardare, sta ferma solo a farsi abitare. Nel mentre ho camminato, semplicemente, per le strade che erano strade di un Perù incontaminato, dove mi sono persa e rincontrata negli occhi dei passanti, degli stanziali e mi sono imbattuta contro certi muri bianchi animati da colori semplici e poveri, che solo chi è ricco di altra ricchezza può dipingere”.
Dal Machu Picchu alle favelas il passo è breve: “Una favola povera che, non solo non ha bisogno di ricchezza, ma la cui unica ricchezza sono gli uomini e le donne, gli anziani e ancora i bambini che parlano senza dire nulla-racconta la Dargenio-Come quella favola che ci racconta mentre scorre e non ha bisogno di altre parole. La favola di Lima. E’, invece, tutt’altra favola quella raccontata dalle favelas Brasiliane. La favola di bambini smarriti nell’inganno del crack. Di uomini e donne che hanno continuato a perdersi nel viaggio del crack per dimenticarsi la fatica della sopravvivenza quotidiana, in un mondo che ha continuato a respingerli. Ma lo sguardo, mai pago, prosegue affamato il suo racconto. Quello dei luoghi e degli spazi, di un mondo attraversato lungo i volti e gli spazi quotidiani. Il Brasile su certe panchine. Il Brasile degli incontri. Il Brasile giocoso, festante negli sguardi dei bimbi. Il Brasile fermo. Il Brasile in movimento. Il Brasile che è arrivato anche a noi, in quest’Occidente. Il Brasile delle grandi passioni: del calcio, dell’allegria, delle alture e delle discese”.
Il viaggio è però anche pretesa di verità, come testimoniano le immagini che ci riportano alla Siria: la Siria dei bambini. La Siria delle mamme. Quella dei giochi, nonostante tutto quello che le accade intorno. “Una Siria che, malgrado ogni guerra, continua ad abitare la Siria. La Siria dei siriani che da quel posto non vogliono fuggire, ma sono costretti a farlo. Così, ho pensato alla “casa”. Al senso dell’abitare. Ho sentito che dovevo tornare per raccontare la Mia di Italia. L’Italia in cui crediamo di essere individui liberi e abbiamo, invece, ancora bisogno di nasconderci, di difenderci, di mascherarci per non essere giudicati. In cui amiamo senza avere la libertà di farlo veramente. L’Italia in cui, ansiosi di dire, dietro il velo, ancora continuiamo a nascondere le nostre verità e, ahimè, questo è quello che la mia terra mi restituisce. Uno sguardo all’ombra di altri sguardi. Uno sguardo ansioso di luce che non vede la luce. Uno sguardo oltre le palpebre, all’interno, dentro, anziché all’orizzonte!” Tutto questo è il dicibile intorno ai miei viaggi sull’imprescindibile umano. Il prescindibile e l’indicibile resteranno, invece, nel cuore di ogni spettatore”.
Data: 11 Mar 2016
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